Candidi traumi: le porcellane di Maria Rubinke

La porcellana come non l’avete mai vista, a raccontare la violenza, il trauma, forse la morte. Una consapevolezza che arriva prima del tempo, come non dovrebbe essere. Il lavoro di Maria Rubinke è, insieme, scioccante. E tecnicamente perfetto.

Chi naviga da queste parte ormai lo sa, sono profondamente attratta dalla reinvenzione di materie “classiche” come le porcellane, le ceramiche, i fili per ricamare. I casi di chi si affida a questi mezzi espressivi per creare qualcosa di completamente diverso rispetto a quel che ci si aspetterebbe sono sempre più frequenti – ma forse è solo perché sono io che li sto cercando di più – e l’effetto ottenuto è spesso e volentieri perturbante.

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Poniamo il caso di Maria Rubinke. Qualche volta, sulla nostra pagina Facebook, ci è già capitato di condividere i suoi bimbetti e le sue bimbette dalla pelle immacolata, e affogata in un lago di sangue. Molti i mi piace, molte anche le critiche: “eh, no, i bambini no”. Posto che siamo d’accordo con l’intento di questa affermazione: i bambini no. La violenza sui bambini è in assoluto una delle azioni più allucinanti che si possano immaginare. Detto ciò, penso proprio che le porcellane di questa giovane artista danese non siano volte a esaltarla, né tantomeno a farci sorridere della cosa, ma semmai a indurre una riflessione, mostrandoci l’essenza del trauma.

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Maria_Rubinke_3Ma di cosa stiamo parlando, concretamente. Bene, vi faccio un esempio che forse tutti avete presente. Avete mai avuto in casa o visto a casa di amici quelle statuette di bambine stile Holly Hobbie? Di solito se ne stanno appoggiate su qualche tavolino in salotto, o meglio occupano una parte importante della classica vetrinetta. Hanno una cuffietta da cui sbucano vezzosi ciuffi di capelli, l’atteggiamento un po’ timido che implica lo sguardo un po’ abbassato, magari qualche fiore delicato tra le manine, e un vestito lungo lungo, fino al polpaccio. A casa dei miei di cose così ce ne sono parecchie, era un po’ il classico regalo di Natale che si scambiava mia madre con le amiche…

Le bambine e i bambini di Rubinke sono tutta un’altra cosa. La porcellana, bianchissima e immacolata è sempre utilizzata per creare immagini di bambini e bambine innocenti, ma su queste si innesta una componente di indicibile violenza. Una di loro, dalle guance paffutissime, si tira i codini con le mani, squarciandosi completamente la testa, un’altra si affetta la gamba, come se fosse un pezzo di salame, un’altra si cava gli occhi dalle orbite e ce li offre, un’altra ancora, mezza umana, mezza teiera, mesce il tè-sangue direttamente dalla sua testa, un’altra ci offre direttamente il suo cuore, esposto in una teca di vetro.

Cosa vogliono esprimere? Cosa vogliono dichiarare, denunciare? Forse che il disagio esistenziale, a volte, può iniziare fin dall’infanzia, dall’età dell’innocenza? Forse che l’esperienza della violenza può purtroppo iniziare fin dal principio della vita? A volte una, a volte l’altra, a volte tutte queste cose insieme. Perché l’infanzia, spesso, non è come dovrebbe essere: spensierata, allegra, scevra da ogni male.

E il fatto che le conseguenze della violenza e il ricorrente richiamo alla morte siano espresse attraverso il mezzo della ceramica è a tratti anche più scioccante. Perché il mezzo stesso è decontestualizzato dalle sue normali funzioni, e perché la violenza ci arriva come un pugno in faccia, non attraverso un fotoreportage di denuncia, non attraverso i canali consueti, ma attraverso un qualcosa di totalmente inaspettato.

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E c’è di più: le porcellane di Maria Rubinke sono belle. Sono tecnicamente perfette. Esteticamente, potrebbero benissimo trovare un posto sul famoso tavolino del salotto o all’interno della vetrinetta, accanto alle porcellane di Holly Hobbie. Una vetrinetta e un tavolino stridenti, ma sicuramente più consapevoli, che mostrano un’altra infanzia. Un’infanzia che non dovrebbe essere.

di Silvia Ceriani

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